Preparazione dei pani
Con la “rasòrr’”, antica paletta tagliapasta in ferro battuto, si tagliava nella misura opportuna, ma sempre rigorosamente ad occhio, una parte di “pasta” che avrebbe formato poi la pagnotta. Bisogna dire che le forma quasi sempre tondeggianti e di dimensioni variabili, hanno un peso che si aggira sul 1kg mentre, anni addietro le pezzature erano molto più grandi, 2/3kg e anche più.
La pasta che avrebbe dato forma al pane veniva prima “šcanèt’” ossia modellata per eliminare sporgenze e protuberanze dovute al taglio, dopo di che si posava su di un supporto in legno foderato da larghe tovaglie che con opportune pieghe, tenevano separati i vari panetti. In fine si ricopriva tutto per favorire la seconda lievitazione. Curando sempre di coprire per bene le forme in base alla temperatura ambientale.
Preparazione delle pitte
Formati i pani, si passava alla preparazione delle pitte stendendo e preparando la pasta pronta per essere farcite con i vari ingredienti.
Le pitte erano sostanzialmente di due tipi: i pitt’ liš, pitte lisce senza condimenti, e “li pitt’ cunzuèt’ o guntuèt’”, pinte condite o solo aromatizzate esternamente o anche impastate con preparati a base di olio o grassi, spesso sugna. La pitta liscia era una parte di impasto schiacciata che prendeva la forma di una grossa ciambellona, con il buco centrale mentre, le pitte cunzuèt’, erano diverse anche nella preparazione. Per alcune, una volta stesa “la pasta” ‘nd’u rüt’, bastava distribuirvi sopra il condimento a vista, altre erano più elaborate. Ad esempio, a pitt’ cu i fogl’, pitta con verdura, le biete, dopo aver distribuito il condimento in modo uniforme sulla base, bisognava ricoprire la verdura allungando delicatamente le parti eccedenti dell’impasto stesso, fino a ricoprire tutto il condimento. Chi non aveva molta manualità risolveva creando un disco di pasta da usare come copertura. Un altro tipo di pitta era quella šchicculuiuèt’ ossia schizzata. Era molto semplice e veloce da preparare, bastava stendere “‘nd’u rüt’ “, nella teglia, il disco di pizza schiacciando con la punta delle dita, creando così delle fossette, si aggiungeva “a sentimento” origano sbriciolato, olio e sale, l’attuale pizza bianca.
Accensione del forno e temperatura di cottura
Il momento dell’accensione era importante. Sapere il tempo occorrente perché il forno raggiungesse la temperatura di cottura anche in relazione alla lievitazione del pane, era qualcosa che si capiva solo con l’esperienza e la pratica.
Il forno si preparava per l’accensione inserendo all’interno delle ramaglie quasi sempre di pino alle quali si dava fuoco tramite una pigna accesa all’esterno. Appena il fuoco cominciava a prendere vigore, si inserivano i taccarïll’. Bisognava tenerlo sempre vivo “allegro” aggiungendo legna non appena si abbassassero le fiamme. Di tanto in tanto si provvedeva a distribuire “cu u sbrasciàtur’ “, una lunga pertica di legno, brace e tizzoni in modo uniforme su tutto il piano di cottura “u sül’ “, diversamente in alcuni punti ciò che vi si metteva in cottura, si “firràvjd’ “ si seccava troppo o peggio, si bruciava.
Per capire se la temperatura fosse giusta, si osserva il colore dei mattoni con cui era costruito il forno. Quando diventavano quasi bianchi, la temperatura era raggiunta. L’espressione a questo punto era “U fürn’ ha ngniànghijèt’.
A questo punto bisognava tirare fuori dal forno la brace, si “sbrasciàvjd’” e veniva raccolta, “cu u rastïll’ “sull’entrata da “a vucch’ d’u fürn” poggiando dei mattoni come argine esterno che sarebbe servito anche come piano di appoggio per la pala sulla quale si poggiavano pitte, pani e quant’altro, per essere infornati.
La fase successiva consisteva nella pulitura del basamento di cottura. Questa fase consisteva nell’eliminare residui di tizzoni e cenere dal piano per evitare che si attaccassero al pane che per la sua cottura stava a diretto contatto con il basamento fatto di mattoni ormai roventi. La pulizia si effettuava con un attrezzo chiamato “u munnul’ “, simile al “mocio” e costituito da un lungo bastone in legno; “u munnul’ “, inzuppato d’acqua, veniva passato una o più volte sul pavimento del forno, proprio come se si lavasse un pavimento di casa.
Prima prova della temperatura
Questa prova era preliminare e serviva per dare una idea della temperatura. Si lanciava nella camera del forno una grossa pizzicata di farina e, osservando attentamente, si valutava come bruciava la polvere. Se la farina bruciava prima di arrivare a terra, il forno aveva la temperatura troppo alta, se toccava il suolo e tardava a bruciare la temperatura era bassa. Quindi l’ideale era che la farina bruciasse appena toccato il basamento.
Seconda e definitiva prova temperatura
La seconda e definitiva prova era la verifica pratica della temperatura con la cottura della “bambèt’“, una focaccia preparata in modo semplice e veloce. In pratica si utilizza un pezzo di impasto, si schiaccia e si mette in forno, dopo qualche attimo l’impasto comincia a ingrandirsi e gonfiarsi diventando come un disco volante. Pochi minuti ed è cotta. Tirandola fuori dal forno si controllano il fondo e la parte superiore. Se il fondo non è bruciato e la parte superiore non ha troppe bolle nere, vuol dire che la temperatura va bene. Se presenta bruciature, bisogna provvedere a ripassare ancora una o più volte “u munnul’ “. Si ricontrolla la temperatura lanciando ancora della farina come nella prima fase.
A Bambet’ si mangia, caldissima, aprendola e spalmando della sugna rossa, quella dove era conservata la salsiccia, o con dell’olio d’oliva.
Infornare le Pitte
Dopo la verifica pratica con la bambèt’, si procede con la cottura delle pitte “cunzuèt’” infornando prima quelle nelle teglie, “’nd’u rüt’”, e poi le focacce, “i pitt’ liš”. Tempo circa 15 minuti, le pitte erano cotte e il forno pronto a ricevere il pane rimasto sempre ben coperto.
Infornare il pane
Il pane si scopre uno alla volta tenendo presente che per infornarlo bisogna girarlo sottosopra, palleggiandolo tra le mani. Con maestria si posa sulla pala, che ha la parte piatta che andrà a depositare il pane in forno, appoggiata sui mattoni che fermano la brace e, la parte opposta, il manico, di solito si appoggia sulla spalliera di una sedia. Poggiato il pane sulla pala, rapidamente si effettua uno o più tagli sulla circonferenza o sui lati. Ogni massaia ha la sua tecnica o “stile-marchio”.
Si procede partendo dai pani più grossi disponendoli lungo il perimetro del forno e badando a lasciare dello spazio poiché c’è ancora un minimo di lievitazione che ne farà aumentare ancora un po’ il volume, lo stesso spazio sarà lasciato tra i pani. Si procede a semicerchio lasciando dello spazio vicino alla bocca del forno, per eventuali panetti più piccoli e per i “rücciul’”, questi ultimi sono panetti leggermente allungati ai quali veniva aggiunta della sugna e quinti “šcanèt’ n’ata vot’”, rimpastati. Essendo più piccoli avevano una cottura più veloce favorita anche dai grassi della sugna. Perciò si mettevano vicina all’uscita del forno.
Infornati i pani c’è una ultima operazione/rito da compiere. La tovaglia che ha coperto i pani viene presa dal centro e tirata su a formare un rialzo, più rimane alto più alto verrà il pane. Si lasciava la tovaglia pronunciando la semplice formula di buon augurio: “e crèš”, cresci.
I tempi di cottura variano in dipendenza delle dimensioni delle forme di pane. Per i pani da 2-3 kg, servono quasi tre ore di cottura, per i pani da 1-2 kg o anche più piccoli, servono orientativamente 2 ore. La cottura si controllava ad occhio. Quando il pane assumeva il classico colore bruno-rosolato se ne tirava fuori uno e prendendolo in mano, proteggendosi con uno strofinaccio, se ne valutava il peso. Se lo si fosse sentito troppo pesante sarebbe stato rimesso in inforno per farlo asciugare ancora in modo da alleggerirlo. Un pane con cottura giusta era più fragrante e manteneva più a lungo la sua morbidezza.
Piccola curiosità
A rasèll’
Il motivo per cui si facevano delle forme di pane grandi, era dovuto al fatto che essendo famiglie numerose, fare dei pani piccoli sarebbe stato solo più scomodo. Oltre tutto il pane era usato anche come “contenitore”, “a spis’ “. In pratica si divideva un pane a metà o poco meno, “a rasèll’, se ne toglieva la mollica in blocco unico e, il vuoto che si creava, veniva riempito da peperoni fritti, patate, frittate o altro. La mollica si usava poi come tappo, a copertura del contenuto. Si avvolgeva “’nd’u stiavùcch’“ un grande fazzolettone o tovagliolo che, aprendolo, sostituiva la tovaglia e il tovagliolo. Questo era colazione e pranzo che chiunque si recasse a lavoro si portava e che doveva bastare per la giornata intera.
Federico De Marco