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Francischi i Vurpi

Francischi i Vurpi

Cosa avesse di “volpino”, lui che era l’ingenuità in persona, non si è mai capito: forse la mansuetudine dello sguardo, quando il cacciatore stana la volpe e sta per ammazzarla e lei spera che possa sfuggire al suo tragico destino. Lo si vedeva per le vie del paese, col suo abituccio sdrucito, color grigio, ma dignitoso, camminare a testa bassa che ogni tanto alzava, incontrando le persone, per ripetere con quella voce stranamente gutturale in quel corpo gracile: “Anò, anò”. Che cosa veramente significasse questo intercalare che aveva la nostalgia di una nenia antica, non si è mai chiarito: un misto tra dimmi, senti, per attirare l’attenzione ed essere considerato uguale agli altri.

Non aveva nessuno Francischi i Vurpi se non il paese: e per il paese egli era l’ambasciatore celere per ogni incombenza. Se nella farmacia mancava qualche medicina, chi ne aveva bisogno lo comandava per recarsi nella vicina …, paese più grande e attrezzato, per andarla a prendere.

La sua locomotiva erano le gambe: vispe e inquiete come i suoi occhi che partivano a razzo per tornare velocemente, con le scarpe a tracolla, per risparmiarle e mettere nei giorni di festa comandati, Natale e Pasqua.

Nei suoi occhi, appena giunto, si leggeva la soddisfazione di essere stato utile: la riconoscenza, quando c’era, era un piatto di pasta che consumava in silenzio, appartato in cucina. Tranne quel “Anò, anò” egli non diceva niente di sé, quasi pudico del suo passato, dei suoi crucci e dei suoi sogni se mai ne aveva avuti, visto che sembrava essere stato sempre così, mingherlino, solo, senza infanzia, subito adulto.

Per lui parlava la gente, per riderci come avviene nei piccoli paesi, scaricando le proprie preoccupazioni, i propri disagi quotidiani su questi esseri diversi, che fanno da parafulmine, tanto loro non hanno niente da perdere, non soffrono, perché li si considera estranei alla vita.

E così si diceva che gli era stato combinato a forza un matrimonio, con una donna di mezza età, bassina, brutta, anche se lei ripeteva che belle ce ne siamo… ma non certo come lei! Chissà cosa aveva spinto la gente a favorire questa unione: compassione per le due solitudini da unire per renderle meno amare, gioco feroce per vedere cosa sarebbe successo o altri insani propositi. Sta di fatto che la prima notte, appena egli la vide che cominciava a spogliarsi, si dice che sia fuggito via dicendo “focu miu focu miu”. Qualcuno mormorava che schivava la donna per aver visto stuprare la madre da piccolo, nel chiuso di una buia stradina senza che qualcuno, pur sentendo le grida e i singhiozzi del piccolo, intervenisse.

Ma quando si rievocava, in piazza, messi gli uomini a cerchio, tra sberleffi e volute di tabacco e trinciato forte, nelle serate invernali, al caldo mansueto delle cappe, nere come le taccole che abitavano il castello, i casi strani della vita con le sue improvvise fughe di cachinno, la mente non poteva non andare a Francischi i vurpi e all’episodio del treno.

Quel giorno era stato comandato, come al solito, a andare a prendere medicine, questa volta addirittura in città, distante un centinaio di chilometri.

Per quanto veloce, certo non poteva andare a piedi, anche perché, spaesato com’era si sarebbe perso strada facendo. Era giocoforza prendere il treno: e di buon’ora, facendosi luce con un po’ di resina accesa, si era incamminato, accompagnato dagli zoccoli degli asini sul selciato che recavano i padroni al lavoro, verso la stazione, egli sempre con le scarpe a tracolla che avrebbe messo una volta salito sul treno. Nello scompartimento in cui si sedette, c’era una donna.

Francischi si sentiva a disagio e per evitare lo sguardo si sporgeva dal finestrino per avere la familiarità della campagna, della notte che annulla differenze e ci restituisce identici, come all’inizio del mondo, senza le malformate diversità costruite dalla luce. Ogni tanto però un fugace sguardo lo dedicava alla donna: un ovale perfetto, lineamenti delicati, sguardo dolce, labbra sottili che accennavano a un sorriso. Chissà se lei gli ricordava la madre, la cui foto, ormai ingiallita, conservava, unico tesoro, nelle tasche sempre vuote della sua giacca. A volte ci sono dei disagi che fanno bene all’anima, quasi una richiesta di protezione e di dondolìo del cuore come era il suo “Anò, anò”.

“Anò, anò” - disse all’improvviso, rivolgendosi a lei - “quando ci vuole, quando ci vuole?”.

La ragazza, in quel momento che si toglieva il soprabito, evidenziò la sua pancia prominente di donna incinta. E con il sorriso di chi è proiettato nella dolce creatura che deve nascere: ”Circa un mese” - rispose, con amabile dolcezza. Francischi si precipitò dal finestrino, preoccupato di dover viaggiare per un mese per raggiungere la città, mentre la persona del paese lo aspettava impaziente che egli portasse celermente, come era suo costume, le medicine richieste.

(da “Il gioco dei quattro cantoni”)




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