(da: Ricerche di Romualdo Cannonero, 1576.)
Corsi e ricorsi della storia. Analogie e differenze con i conflitti in corso. A noi le riflessioni personali.
LINGUA, RELIGIONE, FELICITÀ E SACRILEGI DE' SIBARITI.
Benché di Sibari non ci sia pervenuta alcuna iscrizione, sappiamo per certo ch’essa aveva conservato il dialetto de' suoi fondatori: le sue monete ce ne dànno chiarissima prova. Tutta la Magna Grecia rimase per lingua un paese greco: il greco idioma cominciò a perdersi nel XIV secolo. La religione de' Sibariti era il culto della Dea Giunone, in onore della quale avevano instituito una gara di citaredi, volendo pur gustare qualche diletto nell'atto stesso che rendevano omaggio agli Dei. Avevano inoltre in particolare venerazione Filottete, le cui freccie dicevansi conservate in un antico tempio tra il Sibari e il Crati; ma il loro sommo dio era la mensa.
Noi li vedremo nella loro felicità salire a tale arroganza, da sfidare l'ira stessa del cielo. Posseditori di smisurate ricchezze, e immersi in beati ozi i Sibariti trascuravano ogni utile ed onesto lavoro. Le faccende di casa commisero a donne forestiere, le fatiche della campagna a uomini delle città tributarie; i traffichi del loro commercio ai Milesi ed ai Toschi: essi non vollero altri pensieri che quelli de' lor godimenti. Godere era la loro vita; grandeggiare per fasto e splendore la gloria loro. Per essi non v'era più alcuna cosa desiderabile. Erano potenti, rispettati e temuti; vestivano con regale magnificenza; diguazzavano nelle delizie della gola; tripudiavano in private e pubbliche feste; saziavansi il giorno in facili e liberi amori; dormivano la notte su letti di rose; si sentivano pienamente felici. Allora cominciarono a temere che tanta felicità potesse un dì venir meno, e mandarono a consultare su ciò l'oracolo di Apollo a Delfo. Gl’inviati tornarono con questo responso: Sarai felice finchè venererai gli dei più che gli uomini; ma quando questi sopra quelli saran da te venerati, sorgeranno a tuo danno sedizioni e guerre. A sì fatte parole i Sibariti credettero che le loro delizie non avessero mai a cessare, parendo loro che non mai eglino avrebber gli uomini anteposti agli dei. Essi non pensavano che ne' cuori, dai quali s’è ritirata la virtù, la religione non ha più alcuna sicura custodia. Avvenne che un cittadino acceso d'ira contro uno de' suoi famigliari l'inseguisse percotendolo senza misericordia. Lo sciagurato cercò un rifugio nel tempio; ma nè pure la santità del luogo valse a frenare il braccio dell'irato padrone. Allora il servo andò ad invocare sulla tomba del padre di lui quella pietà che presso l'ara della dea non aveva trovata. Il cittadino per rispetto alla memoria del genitore represse lo sdegno, e cessò dal maltrattare lo schiavo. I Sibariti non badarono punto alla gravezza del fatto; ma Isamiri, uno degli inviati a Delfo, vedendo il sepolcro di un uomo anteposto all'ara de' celesti, memore della predizione dell'oracolo, se ne atterrì, e fingendosi pazzo, vendette ogni sua sostanza, e fuggì nel Peloponneso, per non assistere alla rovina della patria: da ciò il proverbio Isamiri impazza, applicato a chi finge di avere perduto il bene dell'intelletto. Intanto l'empietà andava crescendo insieme coll'alterigia e la prepotenza nell'animo de' Sibariti, che non tardarono a consumare un altro e maggior sacrilegio. Un giorno, mentre celebravasi la festa della dea Giunone, e la gente era intenta alla gara de'citaristi, sorse viva contesa fra' cittadini in proposito d’un di que' sonatori; il quale vedendo che per sua cagione si metteva mano alle armi, e ch'egli pericolava della vita, andò a rifugiarsi a pie dell'ara inviolabile, dove, benchè vestito della sacra stola, fu con inumana empietà trucidato dinanzi al simulacro stesso della dea Giunone. I sacerdoti fecero correr la voce che dal luogo dov'era stato commesso l'eccidio, si era visto sgorgare un rivo di sangue. Il popolo mandò a consultare sul funesto prodigio l'oracolo di Delfo, il quale rispose annunziando alla sacrilega città irreparabile e misera fine. Non per questo i Sibariti fecero senno; chè la boria li aveva gonfiati al punto di ridersi delle minacce del cielo. E il cielo cominciò a punirli togliendo loro il più prezioso dei beni, la libertà; se pure nelle crapule e nelle lascivie essi avevano ancora conservato la coscienza che la libertà è un bene.
GOVERNO DI SIBARI. TELI USURPA IL PRINCIPATO. I SIBARITI VIOLATORI DELLE PIÙ INVIOLABILI LEGGI.
Mancano alla storia documenti che accertino con quali leggi i Sibariti si governassero; da poi che il libro di Aristotile sulla loro republica, e quello di Clitonimo sui Fatti della città di Sibari andarono interamente perduti. Che si reggessero colle leggi di Zaleuco, secondochè da taluno venne affermato, non si potrebbe ammettere senza molta esitanza, non solo perché non è ben certo in qual tempo questo legislatore vivesse, e se veramente sia mai esistito; ma più ancora perchè la vita lussuriosa de' Sibariti era un'aperta e continua negazione di quelle rigide leggi. Se il codice che Zaleuco aveva dato ai Locresi dichiarava infami quei cittadini, che avessero portato vesti di lana milesia, come poteva essere che i Sibariti sfoggiassero più che ogni altro popolo in tessuti di questa pregiatissima lana? Come poteva essere che le matrone di Sibari vestissero con tanta pompa di preziosa adornatura, se Zaleuco, per vituperare i più cari oggetti della vanità femminile, non consentiva i ricami e gli ornamenti d'oro che alle sole donne, le quali facevano mercato delle proprie grazie? Come s'accorderebbe l'intemperanza de' Sibariti nel bere con quelle leggi che condannavano a morte chi avesse bevuto un sorso di vino schietto senza il consentimento del medico? Uno storico moderno pensa che i Sibariti avessero adottato quell'ordine misto, o quella temperata aristocrazia, che i prudenti dell'antichità stimavano la forma più sana di governo.
Forse ciò fu nei primi tempi di Sibari, quando Achei e Trezenii vivevano ancora in buona armonia fra loro: imperocchè la sollevazione della plebe, che vedremo presto cacciare dalla città i più ricchi, fa sospettare che questi si fossero impadroniti delle principali magistrature. Nell' assoluta mancanza di notizie intorno all'ordinamento politico de' Sibariti, v'ha chi crede d'aver indovinato che le famiglie discendenti dai fondatori della città venissero divise in tre tribù, nelle quali soltanto erano gli eleggibili alle alte cariche, e che gli altri Greci, accettati come cittadini, avessero il diritto di eleggere, ma non quello di essere eletti. Tale ipotesi si potrebbe ammettere rispetto ad altre colonie della Magna Grecia, piuttosto che rispetto a Sibari, se i discendenti degli Achei, i quali erano stati co' Trezeni fondatori della città, venivano esclusi da' publici uffici da questi ultimi fattisi più ricchi, e quindi più potenti dei primi. Gli Achei inclinavano alla pura democrazia della madre patria, e rimasero plebe; mentre i Trezenii, pigliandosi i privilegi degli opulenti, costituirono il ceto dei nobili. Questi, benchè inferiori di numero a quelli, prevalsero nel reggimento della publica cosa: ond'è che fra gli uni e gli altri era una continua rivalità, che doveva finire nello sconvolgimento della guerra civile, e accelerare il fato di Sibari. Il pervertimento de'costumi ebbe in questa città il medesimo effetto che produsse in tutti i tempi, in tutti i popoli, quello cioè di spianare la via alla tirannide. Uno dei primarii cittadini nominato Teli riuscì colle arti dell'astuzia a guadagnarsi il favore della plebe, che, istigata da lui, sollevossi contro i grandi, e ne cacciò in bando cinquecento, appropriandosi le loro ricchezze. Gli espulsi rifuggironsi a' Crotoniati, e invocarono la loro protezione, supplicando presso l'are del foro. Teli, divenuto signore della città, inviò legati a’ Crotonesi intimando, o gli fossero consegnati i cinquecento sbanditi, o si tenesse per dichiaratala guerra. A si minaccioso comandamento i Crotoniati congregarono l'assemblea, per deliberare se si dovessero difendere quegli infelici, esponendo sè ai pericoli della guerra con un potentissimo nemico, oppure violare le sante leggi dell’ospitalità, abbandonandoli alla vendetta del tiranno di Sibari. Senato e popolo furono lungamente ondeggianti fra i consigli della prudenza e quelli dell'umanità e della giustizia. Il desiderio di evitare i danni della guerra stava per trionfare della pietà nel cuore de' Crotoniati, quando sorse Pitagora a parlare in favore de' supplichevoli. Il filosofo di Samo, non comportando vedere la sua patria oppressa dalla tirannia di Policrate, era da più anni venuto a stabilirsi a Crotone, e quivi colla sua scuola tanta autorità aveva acquistata, che quel senato, composto di mille cittadini, in ogni cosa si regolava secondo il consiglio di lui. E fu consiglio di Pitagora che i miseri, i quali la vita loro commessa avevano alla fede dei Crotoniati, Crotone dovesse proteggere con tutte le sue forze a costo di qualunque pericolo. La generosa sentenza del savio pose fine ad ogni esitazione. Senato e popolo concordemente deliberarono di volere rispettata l'ospitalità, rispondendo, s'era d'uopo, con le armi alla tracotanza de' Sibariti. Tuttavia, volendo prima far manifesto il loro desiderio pel mantenimento della pace, inviarono a Sibari trenta legati, i quali esortassero Teli a recedere dalle sue ingiuste intimazioni, e a rimovere ogni argomento d'inimicizia fra le due città col richiamare gli esuli nel godimento de’ loro diritti e delle loro sostanze. Teli, sprezzatore d'ogni più sacra legge, sollevò il popolo a furore contro gl'inviati che venivano nella sicurtà del diritto delle genti. Invano questi cercarono scampo nel tempio della Dea Giunone; chè tutti furono uccisi spietatissimamente, e i loro cadaveri gettati fuor delle mura pasto alle fiere. Cosi le colpe de Sibariti salivano a quel colmo che rende inesorabili la giustizia degli dei e la vendetta degli uomini. La città sacrilega era vicina a pagare il fio delle sue empietà e della sua prepotenza. La favola narrò che nella notte Giunone apparisse accesa di collera ai magistrati di Sibari. Nelle stesse vittime immolate affine di rendersi propizia la dea nell'imminente guerra, si manifestarono invece i segni dell'ira celeste. Callia indovino Eleo, dell'inclita stirpe degli Iamidi, il quale trovavasi presso Teli, e forse coll'autorità del proprio ufficio gli aveva agevolato la via al principato, veduti i presagi infausti a Sibari, fuggi da questa città, e andò a sostenere le ragioni de’ Crotoniati.
GUERRA TRA SIBARI E CROTONE. DISFATTA DE' SIBARITI E DISTRUZIONE DI SIBARI.
I Sibariti uscirono in campo con 300 mila combattenti[1] e con 100 mila i Crotoniati. Ma questi avevano alla loro testa l'atleta Milone, uomo d'insuperabile fortezza, e già stato sei volte vincitore ne giuochi olimpici, e sei volte ne'pizii. Entrato in battaglia col capo cinto degli allori mietuti in Olimpia, e a guisa d'Ercole coperte le spalle d'una pelle di lione e armata la mano di clava, sbaragliò il corno nemico che gli stava di fronte, schiudendo al proprio esercito la via al più segnalato trionfo. Diodoro attribuisce alla prodigiosa forza di Milone[2] la vittoria de' Crotoniati sopra un nemico due volte ad essi superiore di numero: altri antichi scrittori la vogliono invece ottenuta colla perfidia di un Sibarita sonatore di flauto. Essi narrano che questo traditore pochi di prima del combattimento passò dal campo de' suoi a quello de' Crotoniati, proponendo loro uno stratagemma, pel quale tutta la cavalleria nemica sarebbe facilmente venuta in loro potere.
Trovata piena adesione alla proposta, adunò parecchi flautisti, e loro insegnò ad accordarsi in un certo suono che dovevano ripetere nella battaglia, quando egli ne avesse giudicato il momento opportuno. I Sibariti boriosi per natura, e più gonfi in quel giorno che vedevansi in tanta forza, schierarono fastosamente la loro cavalleria dinanzi al nemico, come se a farne pomposa mostra fosser venuti. Allora il traditore diede il segno convenuto, e tosto echeggiò dall'uno all'altro campo quel suono di tibie con che i Sibariti solevano eccitare alla danza i loro cavalli. I quali obbedienti al noto invito drizzaronsi in piedi, e gettati di groppa i cavallieri, si diedero tripudianti a ballare com'erano usati, mettendo la maggior confusione in tutto l'esercito.
I Crotoniati furono pronti a piombare sulle scompaginate schiere, e ne fecero orribile scempio. Questa narrazione, tuttochè avvalorata dall'autorità di Aristotile, è veramente puerile; se pure non è un amaro dileggio contro quel popolo dissoluto, i cui folli costumi si volesse, ad ammaestramento altrui, ricordare nella sua ingloriosa e misera fine. Forse la numerosa cavalleria de' Sibariti, ch'era in prima fila, impacciata dai molti canali che intersecavano il campo, retrocedendo in disordine, portò nell'esercito quello scompiglio che facilitò la vittoria de Crotoniati. Ma non importa stillar la mente in ipotesi per ispiegare il subito scompaginarsi della cavalleria de' Sibariti, quando si pensi ch'essa era composta di quei cavallieri, i quali passavano la giornata per le piazze a fare pompa del loro splendido abbigliamento e delle loro fimbriate corazze. La battaglia era stata combattuta vicino al Trionto l'anno 510 prima dell'era volgare. Mentre i Sibariti erano tagliati a pezzi sulla riva di questo fiume, nella città correva il sangue a torrenti. Il popolo sollevatosi contro la tirannia di Teli, lui e tutti i fautori suoi scannò dentro il sacrario della dea, in nome della quale questi sciagurati avevano implorato invano misericordia. Si disse che la statua di Giunone inorridita torcesse gli occhi. Intanto i Crotoniati ebbri del trionfo corrono a Sibari, ne passano gli abitanti a fil di spada, ne saccheggiano le ricchezze, ne abbattono le case, i tempii, le mura, e condottovi dentro il corso del Crati, sommergono in quelle acque la distrutta città, perchè neppure delle sue rovine rimanesse più segno sopra la terra. Tale abuso della vittoria non era forse provocato soltanto dal desiderio di vendicare i trenta legati uccisi contro il diritto delle genti; ma forse altresì dall'invidia che i Crotonesi dovevan portare a Sibari, per commerci, per dominio, per dovizie più potente di loro: forse essi vollero colla distruzione della rivale pigliare il suo posto di città preponderante nella Magna Grecia. L'annunzio che l'opulenta, la superba, la felice Sibari era caduta divulgossi per tutto colla rapidità del baleno, se è vero e se è possibile che della sua disfatta giungesse il grido in Olimpia il giorno stesso della battaglia. A quell'annunzio i Milesii giovani e vecchi si rasero il capo a publica dimostrazione di lutto. Gli altri popoli rimasero sbalorditi all'udire che la felicità di dugento dieci anni Sibari avesse perduta nel giro di settanta giorni. Le intemperanze e le delizie non avevano mai prodotto il loro inevitabile effetto nè in più rapido, nè in più terribile modo che a Sibari. Gli antichi chiamarono poi calamità sibaritica una grande sventura meritata colla sregolatezza della vita e coll'irriverenza verso gli dei. La rovina di Sibari fu il primo crollo alla prosperità della Magna Grecia, che dopo quella catastrofe si andò estenuando in continue e sanguinose rivoluzioni. La feroce sollevazione de' Crotoniati contro i Pitagorici, che erano della fazione aristocratica, pare abbia avuto origine dall'occupazione dell'agro sibaritano, che i patrizi si spartirono fra loro nulla lasciando alla plebe. La casa di Milone fu data alle fiamme. I Pitagorici che v'erano adunati perirono parte di fuoco e parte di ferro per mano del popolo eccitato a furore da un turbulento cittadino di nome Cilone, ch'era stato escluso dal sodalizio di Pitagora. Pitagora riuscì a salvarsi, e andò a finire la vita, dicesi, a Metaponto nell'età di 80 anni. Questa crudele sollevazione tornò funesta non pure a Crotone, ma a tutte le città della Magna Grecia, a cui, dopo la dispersione de ' Pitagorici, mancarono gli amici della sapienza, i difensori delle buone leggi e i sostenitori de' buoni costumi. Crotone ricadde nelle mollezze di prima, e meritò l'obbrobriosa tirannia di Clinia (A. 494 a. C.).
F. P.
[1] Diodoro, XII; Strabone, VI. Come mai Sibari con una popolazione di 300 mila uomini poteva dare un esercito di 300 mila soldati? Questa moltitudine di combattenti dovrebbe parere esagerata, anche ammettendo che alle milizie de' Sibariti fossero venute a congiungersi quelle delle colonie e delle città tributarie.
[2] Milone figliuolo di Diotimo ospitò in sua casa Pitagora e ne divenne discepolo (Strab. VI, 2.) Questo Sansone degli atleti acquistò grande celebrità presso gli antichi, che narrano di lui maravigliosissime cose. Egli ponevasi dritto in piedi sopra un disco unto d'olio, e sfidava i più forti a farlo menomamente scivolare dal posto. (Pausania, El. II, 14.) Cingevasi la fronte con una corda, non altrimente che si farebbe con una ghirlanda; poi stringendo la bocca e trattenendo lo spirito, empieva di sangue le vene del capo in modo, che colla forza della loro gonfiezza spezzavan la corda. (Pausania.) Raccontasi che pericolando una colonna della sala, ove s'adunavano i Pitagorici, Milone sostenesse da se solo il soffitto, finchè tutti quelli che ivi trovavansi, non furono in salvo. (Strab. VI, 2.) Si narra inoltre ch'egli portò in giro per lo stadio un toro di quattro anni, e che poscia, uccisolo a colpi di pugno, sel mangiò tutto in un giorno. (Ateneo, X, 308.) Chi presta fede a si fatte storielle può credere pure che Milone portasse sulle spalle in Olimpia la statua di bronzo che gli dedicarono i Crotoniati, e gli fece il suo concittadino Damea. (Paus. loc. cit.) Un moderno scrive che quest' atleta è il solo personaggio dell'antichità del quale siasi detto che ebbe la grandezza dell'animo proporzionata a quella del corpo.